Metis alle origini del concetto di intelligenza
MONICA
LANFREDINI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 10 ottobre 2020.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE]
Premessa: il presente saggio
è stato suddiviso in quattro parti pubblicate settimanalmente.
Prima, Seconda e Terza Parte
Introduzione. Siamo abituati a pensare all’intelligenza come a
una facoltà misurabile della mente umana dalla quale dipende una parte
importante della vita di ciascuno. I concetti operativi delle discipline che la
studiano, così come quello popolare di abilità cognitiva generale messa alla
prova dalle circostanze della vita, hanno quasi del tutto coperto nella
coscienza collettiva due aspetti problematici: il primo è che le abilità operazionali
che esercitiamo, sviluppiamo e misuriamo singolarmente potrebbero apparirci
distinte per effetto di questo trattamento culturale, ma essere in realtà tutte
espressioni di uno stesso nucleo funzionale; il secondo è che sicuramente quel
potere della nostra mente che chiamiamo intelligenza, qualunque sia la sua
natura cerebrale, è interconnesso con tutti gli aspetti della nostra vita psichica.
Questi due
problemi riportano alla nostra coscienza un fatto, ossia che il modo attuale di
considerare l’abilità emblematica del nostro potere cognitivo ha indotto all’oblio
culturale l’approccio creativo alla sua conoscenza, storicamente espresso dal
pensiero greco arcaico e antico. L’intelligenza che, per interpretare sé stessa,
si rappresenta frammentata in tante virtù, arti, proprietà, doti e risorse che
costituiscono altrettanti requisiti distintivi delle divinità olimpiche
maggiori e minori, oppure si esprime totalmente, personificandosi in una dea
che esiste solo a questo fine, potrebbe suggerire riflessioni e ispirare nuovi
percorsi di ricerca.
Ma anche
se questo scritto non si rivelerà, come è probabile, utile per le neuroscienze,
spero che possa valere per aver favorito il piacere di immergersi in quella
dimensione temporale che ha avuto il suo maggiore teatro nello scenario eterno
e naturale dell’azzurro terso e intenso del cielo e del mare, alla luce di un
sole senza tempo.
Chi era Metis e in cosa si rappresentava. Il nome proprio Metis identifica una divinità
figlia di Oceano e Teti, che fu la prima sposa di Zeus, dal quale fu ingoiata
mentre era incinta di Atena; come nome comune, prima dell’epoca di Platone,
quando venne a designare la misura intesa quale cifra della ragione greca,
metis indicava un’accorta prudenza, una trovata d’astuzia o una risorsa
di ingegno, ovvero una manifestazione di intelligenza non convenzionale o
superiore all’ordinario.
Trascurata
per secoli dai grecisti[1], anche per le difficoltà d’interpretazione dei testi
che la riguardavano, il fascino della sua scoperta fu reso evidente a metà del
secolo scorso dalla ricerca di Henri Jeanmaire su La
nascita di Atena e la regalità magica di Zeus (1956)[2], e ben presto divenne chiaro che l’arco
temporale di indagine sulla sua natura avrebbe dovuto coprire oltre mille anni,
fino a Oppiano.
Gli studi
successivi hanno definito un campo semantico vasto e caratteristico legato alla
metis e, soprattutto, hanno definito il suo valore di mezzo per ottenere un
risultato, risolvere un problema, venir fuori da un’aporia, volgere a proprio
vantaggio una difficoltà, inventare stratagemmi o strategie in corso d’opera
con perspicacia, sagacia, prontezza ed efficacia. Si parla di metis anche per
spiegare artifici magici, per descrivere i segreti di un artigiano o di un
artista valente, per indicare il ricorso a filtri o erbe medicinali (pharmacon) e, sistematicamente, per indicare i trucchi
d’astuzia della volpe e del polpo. Ulisse, grande maestro dell’inganno, è
definito polumetis, cioè dalle tante risorse di metis.
Omero
fornisce nel XXIII canto dell’Iliade, nell’episodio dei Giochi, un esempio
emblematico di metis. Il giovane Antiloco deve affrontare nella corsa dei carri
Menelao, i cui cavalli sono di gran lunga più veloci e forti dei suoi: il
pronostico lo vuole sicuro perdente, anche se Poseidone e Zeus lo hanno dotato
di abilità non comuni e della fortuna di essere figlio di Nestore, il più
esperto consigliere in fatto di tecniche in questo campo, capace di dargli i
suggerimenti migliori. Dopo aver tessuto le lodi della metis, per incoraggiare
Antiloco il padre dice che l’auriga esperto di tutti i trucchi, anche se ha dei
ronzini e non dei grandi corsieri, può vincere. Ma la trovata è frutto dell’improvvisazione
istantanea del giovane: giunti ad una brusca strettoia della pista, corrosa in
quel punto dalle acque di un temporale, Antiloco taglia diritto la curva a
tutta velocità precipitandosi, come se avesse perso il controllo, contro il
carro di Menelao; questi, sorpreso dall’improvviso pericolo di impatto,
istintivamente frena i cavalli e il giovane lo sorpassa, andando a vincere d’astuzia
una gara che di forza avrebbe sicuramente perso.
Ecco cos’è
soprattutto la metis: l’intelligenza che batte la forza. Per questo la sua rappresentazione
non poteva avere espressione migliore di una divinità femminile, stante la
media naturale dei corpi maschili caratterizzati da dimensioni maggiori e
muscoli molto più potenti.
Prima di
provare a caratterizzare con vocaboli e concetti impiegati dagli antichi greci
questa particolare espressione dell’intelligenza, desidero sottolineare che il
modo in cui è intesa la metis indica più un atteggiamento mentale
complessivo al servizio del quale il soggetto pone le sue strumentalità
cognitive, che una singola facoltà mentale; pertanto, si presta particolarmente
alla personificazione. La metis non è la diligente esecuzione di un compito
predefinito, ma la virtù di trasformare in compito ciò che per la maggioranza è
un ostacolo insormontabile, trovare una via quando sembra di essere in un
vicolo cieco; ma anche porsi un problema che gli altri non considerano e riuscire
a risolverlo prima che gli altri lo comprendano. Perché la metis non è solo
questione di esecuzione di strategie e artifici, ma anche capacità di lettura
della realtà: è proprio dal modo in cui l’intelligenza formula un problema che dipende
il suo successo nel trovare una soluzione.
Dunque, la
metis non è un’astuzia, magari appresa in quanto tale e poi impiegata al
momento giusto, ma uno stile psichico che implica un particolare tipo di
attenzione: come il grande detective è sempre un buon osservatore, chi è dotato
delle risorse della figlia di Teti tende costantemente a tenere sotto controllo
i segni che può cogliere nella realtà, come indicato da un verbo greco poco
noto, dokeúein, termine tecnico della pesca,
della caccia e della guerra, tradotto in genere con spiare, ma che negli
esempi di metis si potrebbe rendere in italiano con scrutare, monitorare
e, in alcuni casi, scandagliare. Un esempio lo fornisce l’autore esiodeo
dello Scudo[3], che usa questo verbo descrivendo un pescatore
accovacciato immobile in agguato con la sua rete, pronto a lanciarla
dispiegandola in tutta la sua estensione al primo segnale che indichi il
momento propizio per la cattura dei pesci. La circostanza è semplice ma
paradigmatica: anche se l’esecuzione dell’atto sarà immediata e rapida, la sua
preparazione è stata meditata con cura durante la paziente attesa.
Se l’atto
efficace o risolutivo può compiersi in un istante nel modo più adatto all’occasione,
non è mai una reazione d’istinto, e infatti la metis si colloca agli antipodi
dell’impulsività superficiale: chi è dotato delle risorse di Nestore, Ulisse o
Teti, paragonate spesso alla saggezza (phronesis), coltiva le proprie
doti con un esercizio costante di interpretazione ed elaborazione della realtà che
lo rendono profondo e mai banale, all’estremo opposto dell’ephemeros,
che per la sua iperattività spensierata, con velocità di parola e azione, può
essere scambiato dal semplice per abile e capace, ma in realtà è solo un irriflessivo
che, sfruttando l’energia del temperamento allegro, riesce ad avere un impatto
ad alta intensità nel rapporto con gli altri, spesso rimanendo un
irresponsabile inetto, alla prova dei fatti.
Omero
richiama l’attenzione sulla struttura della metis: non è un’entità unica e
omogenea al suo interno, al contrario si presenta come multiforme ed
eterogenea. Tre vocaboli possono esprimere in sintesi questo concetto:
molteplice (pantoíe), varia (poikíle) e oscillante (aíole).
La
molteplicità è il connotato emblematico per Nestore e, senza dubbio, Ulisse è
caratterizzato come polútropos e poluméchanos proprio in base a questo requisito
della sua intelligenza. Il frequente paragone di Odisseo con il polpo non è
superficiale: è metafora e analogia allo stesso tempo, perché il mollusco è intelligente
– e i Greci erano attenti osservatori delle sue strategie per catturare prede e
sfuggire a predatori – ma rende anche la molteplicità con l’immagine
degli otto tentacoli che si muovono indipendentemente. L’eterogeneità o varietà
fa riferimento soprattutto alla capacità di assumere prospettive, abiti mentali
o paradigmi differenti per comprendere, elaborare ed agire. Esopo osserva in
una favola che se la pantera (il leopardo)[4] ha il pelo maculato, e perciò variegato (poikílos), la volpe è variegata nello spirito[5].
Infine, l’oscillazione
deve intendersi come tentativo di caratterizzazione in rapporto al tempo, anche
se molti autori adoperano aíolos nel significato
di cangiante, più che ondeggiante, con un valore semantico che in parte si
sovrappone a quello di poikílos. Benveniste ha collegato aíolos
ad aíon[6], che nel greco arcaico voleva dire tempo
e midollo spinale, in quanto si riteneva che il tempo stabilito per la durata
dell’esistenza di ciascuno fosse impresso nel proprio midollo spinale. Aion, inteso come tempo primordiale, è spesso rappresentato
come un bambino che gioca a dadi[7]. Ma, riferito alla metis, aíolos
riguarda una temporalità diversa, più di ritmo cangiante che di durata, e
verosimilmente indica l’attività mentale costante, seppure inapparente, che
costituisce il dinamismo necessario all’esercizio dell’intelligenza[8].
Dalla Metis di Orfeo alla Seppia divina. Doveva essere molto bella Teti, quella vera
intendo, ossia la donna che ha ispirato il mito della fanciulla cresciuta sull’Olimpo
presso Era e poi diventata una Nereide, perché Peleo aveva davvero perso la testa
per lei, nonostante avesse sposato la principessa Antigone, si fosse innamorata
di lui Astidamia e fosse circondato dalle donne più seducenti dell’epoca,
compresa la principessa troiana Andromaca, che fu sua concubina. Peleo voleva
Teti a tutti i costi, ma lei gli sfuggiva con mille astuzie; naturalmente il
mito narra di metamorfosi della dea, che aveva acquisito le virtù di Proteo, così
da realizzare il ciclo completo delle trasformazioni che la portò, da Nereide
in grado di nuotare sott’acqua, a mutarsi addirittura in una seppia. Cosa da
scoraggiare anche il più passionale degli innamorati, che di fronte al pallido mollusco
avrebbe visto con buone ragioni sbollire i propri ardori e arrendersi a un’evidenza
mutata non più nella forma, come vuole il termine metamorfosi, ma nella
sostanza di una procace promessa di felicità ridotta a un flaccido esemplare di
cefalopode, nella migliore delle ipotesi promesso alla casseruola. Ma non così
Peleo, che inabissato nel mare della Magnesia, in una grotta sottomarina riesce
a far sua la tanto agognata seppia divina.
Più avanti
vedremo quanto emerge dai più antichi documenti su questo mito e sulle tracce delle
probabili vicende reali che lo hanno ispirato, ma ora accantoniamo per un po’ il
filo degli accadimenti relativi alla madre della nostra protagonista per
cercare di ricostruire il mosaico dell’identità della Metis “orfica”, ossia nella
cultura ispirata ad Orfeo. In questo campo, lo straordinario lavoro di raccolta
e interpretazione compiuto a partire dagli anni Settanta da Detienne e Vernant
ci consente oggi non solo di tracciare un profilo per molti versi inedito della
dea-ninfa, ma anche di individuare un registro critico per comprendere le cause
delle differenze nelle tradizioni[9].
Un caso
emblematico è costituito dal Papiro di Derveni, un rotolo scoperto negli anni
Sessanta ma, al di fuori di ristrette cerchie di specialisti, ancora poco noto
nei contenuti. Si tratta di un papiro del IV secolo a.C. contenente un
interessantissimo commentario a una teogonia orfica che risale all’epoca arcaica:
una miniera di informazioni sull’origine e lo status degli dei e dei daimon,
e una guida per comprendere l’ottica di religiosi e filosofi che, a partire dal
VI secolo, si sono posti sotto il patrocinio di Orfeo per far circolare i loro
discorsi sacri (Hieroi Logoi).
Metis nel
Papiro di Derveni è addirittura la grande divinità primordiale: altro
che trascurabile ninfa del mare ignorata da Omero, come ancora riporta qualcuno!
Ma, prima di entrare in questo dettaglio, è necessario ricordare che l’insegnamento
universitario tradizionale si è basato e si basa sulla Teogonia di Esiodo,
ritenuta ortodossa rispetto alle teogonie orfiche e a tutti gli scritti da queste
derivati nel corso dei secoli. È importante sottolineare che, fino alla
scoperta del Papiro di Derveni, le tradizioni orfiche venivano spesso discreditate,
al punto che si era fatta strada l’idea che non fossero autentiche, ma
invenzioni o “costruzioni artificiali del tardo neoplatonismo”[10]. E, anche se questa ipotesi erronea ancora si
legge, il papiro dimostra l’autenticità di una tradizione mitica che ha origine
in racconti arcaici[11].
La
riabilitazione dei miti orfici comporta il riesame filologico ed esegetico di
una notevole mole di fonti accantonate e di scritti eterogenei, che riportano
leggende, allegorie, trame chimeriche e prodigi differenti e spesso fra loro
contrastanti.
Il problema,
come si presenta oggi agli occhi degli studiosi e di tutti i curiosi che
riescano a gettare lo sguardo sui testi dei documenti, delle riproduzioni, dei
commentari, delle raccolte di frammenti, delle analisi esegetiche e degli studi
di interpretazione, è così sintetizzabile: un groviglio inestricabile,
costituito da fili di senso che spesso mortificano non solo il vincolo
cronologico di causalità, ma anche l’elementare principio logico di identità e
non contraddizione. Cosa fare?
Le possibilità
alternative non sono molte: 1) collezionare alcuni di questi fili – quelli meno
problematici – e porli uno accanto all’altro come versioni differenti del mito,
secondo il principio adottato dagli autori dei dizionari della mitologia classica[12]; 2) seguire il criterio scolastico di riconoscere
solo la trama del mito riportata dai grandi poeti ancora oggetto di studio – e in
questo caso vorrebbe dire rinunciare del tutto, perché Omero non si occupa di
Metis ma solo di metis; 3) farsi allievi dei maggiori esperti e studiare
le loro pubblicazioni per trovarvi un filo di Arianna nel labirinto dei
materiali documentari.
Personalmente
ho scelto la terza opzione, prendendo le mosse dall’opera di Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant che mi ha consentito di venire a conoscenza di
studi e autori dei quali non sospettavo nemmeno l’esistenza. Acquisita una
certa dimestichezza con metodi, concetti e criteri di studio, non mi è stato
difficile trovare spazio per l’esercizio da me preferito fin da quando frequentavo
gli ambienti dell’antichistica italiana: provare a ricostruire o dedurre la
realtà mentale e materiale dell’epoca[13].
Prima che
l’elaborazione dei miti divenisse parte della tecnica letteraria e dunque
frutto artistico della creatività di un singolo o, quantomeno, della sua abilità
di scelta nel patrimonio di tradizione orale, la produzione e la gestione delle
tematiche e dei valori simbolici era parte della quotidiana esperienza
collettiva di raccordo fra l’attualità e il mondo dell’intangibile o del passato.
Se si ha
presente che la complessa genesi dei miti si può sempre riportare alla radice
antropologica della necessità di gestire una realtà attraverso la condivisione della
sua rappresentazione iperbolica in un racconto, si comprende che la trama di tale
narrazione contenga e riveli modi del pensiero e caratteri della psicologia dell’epoca.
Proviamo a
immaginare di essere al tempo in cui il mito non era ancora stato costruito, per
poter tentare di identificarne gli elementi fondanti. Da tutto quanto ho letto
è ragionevole dedurre che sulla scena del mondo, e in particolare fra cielo e
mare, l’intelligenza si era esibita mostrando le meraviglie del suo
potere attraverso una donna, che aveva profondamente impressionato gli
astanti, rendendoli prima testimoni, ossia depositari di una memoria, e
poi relatori, cioè messaggeri dei fatti accaduti e degli effetti
prodotti.
Questi due
spunti reali all’origine del mito possono difficilmente essere contestati: la
civiltà greca più di ogni altra ha attribuito all’intelligenza valore di
fondamento per ogni arte, scienza e conoscenza, e poi, che vi fosse una
particolare donna alle origini del mito, è confermato dalle varianti più
antiche che conservano per protagonista la madre (Teti) o, al massimo, la figlia
di Metis (Atena), ed è anche suggestivamente corroborato in greco dal nome comune
derivato, metis, che appartiene al genere femminile.
La novità
assoluta, documentata dalla tradizione orfica in completo contrasto con l’ortodossia
di Esiodo alla quale è ispirata la coreografica composizione dell’Olimpo che ci
accompagna dagli anni della scuola, è costituita dall’idea che l’intelligenza
sia la madre di tutti gli dei. Metis è meravigliosa e appellata anche Phànes,
Splendente, che appare e fa apparire, e Protogonos, colei che è nata per
prima, perché è la grande divinità primordiale che, uscendo dall’uovo cosmico,
porta in sé il seme di tutti gli dei, il germe di tutte le cose e porta alla
luce, in quanto prima generatrice, l’universo intero nel suo corso successivo e
nella varietà delle sue forme.
Come la
mettiamo con Zeus signore assoluto di tutte le divinità dell’Olimpo secondo
Esiodo e chiamato Padre di tutti gli dei da Omero? È evidente che il primo
nucleo del mito di Metis quale origine di tutte le creature divine deve aver preceduto
i miti della teogonia esiodea o, almeno, deve essersi sviluppato lontano dalla
conoscenza della tradizione che ha avuto più seguito nel corso della storia.
Proprio il tentativo di ricostruire un filo cronologico per queste due
tradizioni in contrasto ci consente di ordinare come tessere di un mosaico o
pezzi di un puzzle alcuni elementi di quella matassa aggrovigliata di frammenti
che, altrimenti, rischia di apparire un autentico pasticcio, senza capo né coda.
I depositari
della tradizione orfica della Metis madre primordiale, quando vengono a
conoscenza della Teogonia di Esiodo, pur professando un’adesione “religiosa”
alla composizione dell’Olimpo e alle sue gerarchie, ribadiscono una “teologia
della genesi” profondamente diversa da quella esiodea. In Esiodo, Metis è
rappresentata in un ruolo subalterno alla divinità maschile, secondo un modello
sociale tipico della giovane donna accolita o compagna del Re Padre, che
esercita tutte le prerogative di detentore di un potere assoluto. Nella trama
esiodea, Zeus è emerso vincitore da una lunga lotta contro le potenze primordiali
del disordine e ha stabilito l’ordine in un cosmo organizzato, differenziato e
gerarchizzato, con sé stesso al vertice della gerarchia.
L’impatto
della tradizione orfica su quella esiodea non deve essere stato lieve: il valore
simbolico di intelligenza attribuito alla figlia di Teti deve aver reso
evidente un deficit del re degli dei. Non solo Zeus non è nato dall’intelligenza
ma, se ne ha bisogno come compagna, evidentemente non ne possiede! Si rimedia
subito: Zeus ingoia Metis e così diventa intelligente.
Prima
della scoperta del Papiro di Derveni, O. Kern vedeva all’interno della
tradizione Orfica nel personaggio di Metis e nel suo ingoiamento da parte di Zeus
una chiara derivazione dalla Teogonia di Esiodo[14].
Ma anche
gli Orfici, a loro volta, reagiscono alla tradizione esiodea. Così Metis-Phànes,
da donna meravigliosa e madre primordiale, in una transizione astratta verso il
concetto di intelligenza, perde la sua natura femminile umana per diventare un dio
androgino: diphués. Dunque, all’ingoiamento da parte di Zeus, che
sembra quasi ribadire una supremazia maschilista legata al ruolo dei
re-guerrieri, gli Orfici reagiscono con una modulazione concettuale che sembra
voler dire: non è una questione di sesso ma di abilità mentale astratta; se voi
ritenete che la donna non possa personificare l’intelligenza, allora vi
proponiamo una personificazione bisessuale, ossia non appartenente a uno solo dei
due sessi. Ecco cosa ne deducono Detienne e Vernant: “Metis non è più, come
femmina, subordinata a Zeus; in quanto bisessuata, questa divinità si pone al
di sopra o, in ogni caso, al di là”[15].
Non
mancano i tentativi di sintesi: l’inghiottimento di Fanes-Metis da parte di Zeus
avviene alla quinta generazione divina, che segue la successione di passaggi
dello scettro da Fanes-Metis a Nux (la Notte), poi a Urano e, infine, a Crono,
prima di giungere a Zeus, che dà luogo a una seconda creazione, omologa della
prima di Fanes-Metis. In tal modo, il re degli dei può essere “inizio, metà e
fine di tutte le cose”[16].
Ma, nel
prosieguo, gli autori Orfici seguono una tradizione che considera Zeus come un
membro di una dinastia regnante, e ne registra l’abdicazione del trono a favore
del figlio Dioniso, rappresentante della settima e ultima generazione degli dei
sovrani. Platone si esprime così al riguardo: l’avvento di questa generazione
di dei nei poemi attribuiti ad Orfeo segna la fine del processo teogonico, ed
ora “bisogna por fine all’ordine del canto”[17]. In altri termini: basta invenzioni sull’origine
degli dei, perché nel IV secolo a.C. i tempi sono maturi per giungere ad una
sintesi culturale stabile e condivisa.
In realtà,
la questione antropologica sempre sottaciuta è che si doveva fare i conti con
le culture locali di sostrato, con tradizioni protostoriche o addirittura
preistoriche, culti che alcuni ritrovamenti archeologici facevano risalire
addirittura al Neolitico. Tradizioni non scritte, con i loro rudimentali monumenti,
tramandate per millenni oralmente da una generazione all’altra, difficili da
eradicare ma a volte anche da “normalizzare” facendole rientrare nelle mitologie
scritte da Ateniesi, Spartani e autori di altre importanti polis. Naturalmente,
la questione si pone quando l’assimilazione si rivela problematica, perché l’identificazione
efficace che copre e annulla il passato costituisce un processo culturale in sé
banale, universale, diacronico e ricorrente: divinità egizie che diventano
greche, gli dei romani che si sovrappongono a calco sull’Olimpo greco con l’aggiunta
dei nuovi re divinizzati, i Numi tutelari classici che diventano santi protettori
in epoca cristiana, e così via, per citare solo i casi più noti.
Nella creazione
degli dei, prima della fase in cui si idolatravano re, capi militari, donne e
uomini dalle virtù eccezionali, vi era stata un’epoca in cui la creazione di
soggetti divini era prevalentemente opera del “pensiero magico primitivo”[18], che tendeva ad attribuire proprietà
straordinarie ad animali, piante ed elementi di natura. In questa epoca, perdendosi
nella notte dei tempi delle culture protostoriche, si può collocare un animale
molto speciale, dotato di metis, che deve aver preceduto la donna straordinaria
nella fantasia dei naviganti primordiali, come vedremo più avanti.
Ma ora
torniamo alla bellissima Teti, al fascino della sua intelligenza e,
soprattutto, agli argomenti che chiariscono il suo rapporto equivoco con l’identità
della seppia.
Chi ci
aiuta a trovare un filo che ci porti a giustificare la scelta del mollusco?
La
scoperta da parte di Lobel nel 1957 di un papiro di argomento cosmogonico
scritto da Alcmane a Sparta nel VII secolo a.C., ben trecento anni prima dell’epoca
di Platone, utilizzando modelli mitici antichissimi e arcaici senza nulla di
orfico, ha segnato un progresso di conoscenza il cui valore è divenuto chiaro
quando il prezioso documento, dopo innumerevoli analisi filologiche e saggi
interpretativi, è giunto all’attenzione di Detienne e Vernant[19].
Alcmane
pone all’origine del mondo la Nereide Teti associata, da una parte a Poros e
Tekmor, dall’altra a Skotos. Un ruolo apparentemente paradossale per la madre
di Achille nella genesi del Cosmo, ma che si può giustificare comprendendo che
l’identità della dea, come accade per Metis, nel corso di secoli e millenni, si
è andata sovrapponendo a quella di entità divinizzate in epoche remote.
Sgombriamo subito il campo da un dubbio adombrato per la prima volta da Jouan
nel 1966, ossia che le metamorfosi che portano Teti a diventare seppia per sfuggire
a Peleo siano un’invenzione poetica di Euripide: il grande tragico di Salamina
si era solo limitato a riportare una storia popolare considerata molto antica
già nel V secolo a.C., come attestano numerose fonti, nessuna delle quali cita
Euripide[20].
La tradizione
del mutamento in cefalopodo sembra risalire ai Canti Ciprii ed è stato
ricostruito che, mentre per parte sua Teti aveva assunto le virtù di Proteo con
la sua dinamica del ciclo di metamorfosi, d’altra parte, Peleo era stato supportato
da Chirone nella fiducia perseverante di seguire i cambiamenti senza perdere la
speranza di poter ottenere la fanciulla sebbene mutata[21]. Chirone consiglia Peleo di ricorrere a sua
volta a un artificio di metis: identificare la seppia-Teti e fingere di non
riconoscerla, per poterla di sorpresa afferrare e serrare tra le braccia,
possedendola proprio mentre ha quella forma, che la rende più vulnerabile. Peleo
riesce nell’impresa, ma in realtà non è una sua vittoria, perché il promontorio
di Iolco, dove Teti si trasforma in seppia dandogli il nome di Capo Sepia o
Capo della Seppia, apparteneva a lei e alle sue Nereidi, e dunque la dea-ninfa
poteva aver realizzato i suoi artifici solo per mettere alla prova Peleo e verificare
se lui avesse perseverato nel desiderarla anche senza un corpo da stupenda
fanciulla.
Erodoto
attesta che la vicenda era considerata dalle popolazioni antiche del Mediterraneo
al pari di un fatto storico: “Dopo la tempesta che ha distrutto la loro flotta
al Capo Sepia, i Persiani offrono sacrifici a Teti e alle Nereidi: «Essi sacrificavano
a Teti perché avevano appreso dagli Ioni che in quel paese lei era stata rapita
da Peleo, e che tutto il promontorio Sepia apparteneva a lei e alle altre
Nereidi»”[22].
Ateneo ci
dice che al Capo Sepia il mare è ricco di seppie e, secondo verifiche recenti, i
molluschi sono ancora abbondanti in quel luogo, a quasi tre millenni di
distanza. Se in tempi remoti era nato il culto per un’arcaica divinità del mare
proprio in quell’area, si può supporre che l’abbondanza di seppie, ritenute
segno della sua presenza, sia stata uno spunto per la creazione della trama. Ma
la cosa potrebbe non essere così semplice e banale.
Infatti,
anche se la seppia è considerata dai Greci, al pari del polpo, un animale
dotato di metis, ciò che non convince è la trasformazione della donna nel
piccolo mollusco e Peleo che la “serra tra le braccia” per possederla. Il sospetto
è che la parola greca per “seppia” possa essere stata impiegata in senso
figurato, traslato, metaforico o simbolico.
Consideriamo,
allora, questa possibilità. La metonimia del colore bianco della seppia era associata
al femminile e alla donna, sia per indicarne l’aspetto negativo della debolezza
sia per esaltarne l’aspetto positivo della bellezza. Chi non ricorda il verso
dell’Odissea riferito a Penelope, in cui si dice che la dea l’aveva fatta più
bella, più bianca dell’avorio tagliato?
Inizio seconda parte.
Scoprire il senso metaforico della
metamorfosi in seppia. Il
bianco della seppia può essere riferito tanto alla tinta della carnagione
quanto al temperamento della donna[23]. Secondo
Eustazio, il nero è il maschio, il forte; il bianco la femmina, il debole, o l’effeminato:
leukoi hoi deiloi, ossia i bianchi sono deboli. L’origine
di questa associazione costante nel mondo classico, e presente anche negli Egizi
che raffiguravano in una tinta scura del rosso il corpo maschile e in tinte
chiare del bianco quello femminile, si comprende se si considera la vita all’aperto
con costante esposizione al sole del corpo degli uomini per attività sociali,
militari o ginniche – gymnos, atleta, vuol
dire nudo – che esaltava la maggiore tendenza, anche per la costituzione
endocrinologica maschile, alla pigmentazione della cute. Per contro, le donne
greche trascorrevano la maggior parte della giornata in casa e tendevano a proteggere
il corpo dal sole intenso. In Plutarco troviamo una connotazione totalmente
positiva del biancore non inteso come pallore, ma intensità luminosa del
chiaro, e della mollezza (tà malakia), intesa come morbida consistenza e non come
flaccidità, della seppia e dei molluschi in genere, nell’accostamento alla desiderabile
delicatezza del corpo femminile (Plutarco, Mor.
916 a-c).
Ma un supporto decisivo all’ipotesi che “seppia”
non si debba intendere alla lettera nel mito di Teti ci viene da Aristofane che,
nella commedia Ecclesiazuse, ovvero Le Donne al Parlamento (392
a.C.), rivela il valore di luogo comune dell’associazione della donna alla
seppia e al suo biancore, nella resa teatrale di un fatto di cronaca rappresentato
mediante il gustoso episodio di un travestimento di donne ateniesi, tanto
improbabile quanto perfettamente riuscito nel suo scopo. In breve, un gruppo di
donne ritiene che gli uomini stiano mandando in rovina la città di Atene e vuol
fare in modo che tutte le attività politiche ed economiche passino sotto il
controllo di esponenti del sesso femminile, capaci di amministrare in modo più
saggio, oculato e democratico. Ma il Parlamento è composto solo da uomini che
non voterebbero mai a favore di un provvedimento che cederebbe tutto il potere
alle donne, allora le nostre eroine decidono di entrare in incognito nell’assemblea
della polis, presentare il provvedimento e convincere quanti più uomini
possibile a votarlo.
A questo scopo, le Ateniesi si camuffano da uomini,
facendone una tanto involontaria quanto divertente parodia, imitando i
caratteri distintivi dello stile, della postura e della voce degli esemplari a
loro giudizio più emblematici del genere maschile; si appiccicano con cura delle
barbe finte sulla candida pelle del viso e, nonostante abbiano cercato di
ovviare la differenza del tono cutaneo, quando sono tutte pronte per fare le
prove del discorso, una di loro esclama: “Si può vedere nulla di più buffo? …
Pare di vedere tante seppie arrostite con la barba!”[24].
Taillardat così commentava:
“Le donne che rimangono sempre a casa hanno la pelle bianca come le seppie e,
sebbene esse si siano abbronzate al sole, la loro abbronzatura è superficiale,
e rassomigliano più a delle seppie dorate in padella che a degli uomini
veramente scuri”[25].
Dunque, l’accostamento fra donna e seppia era
comune e se si cerca in Aristotele, Plutarco, Ateneo e Oppiano si trovano
esempi a sufficienza per non dubitare che il mollusco fosse anche una figura
dell’astuzia al femminile, così come il polpo lo era per quella maschile. La
seppia è la bianca che nasconde il nero, l’inchiostro che rende
oscure e impenetrabili le acque, creando un’aporia per gli altri ma costituendo
per lei una soluzione, un póros, nel duplice significato di stratagemma
e via d’uscita. Il bianco è associato dai Greci alla luce, il nero alle
tenebre; dunque, si spiega il posto occupato nella teogonia di Alcmane[26] da Teti che,
in quanto bianca come donna/seppia è accostata alla luminosità di Poros e
Tekmor e, in quanto dotata di metis/inchiostro, è avvicinata al tenebroso
Skotos.
Tuttavia, questa pur plausibile ragione dell’identificazione
della Nereide con il cefalopodo, non convince del tutto in rapporto a un aspetto
cruciale della trama del mito: Teti va incontro al ciclo di metamorfosi e, quando
diventa seppia, viene posseduta da Peleo. In altri termini, il racconto
non indica una costante e costitutiva appartenenza di Teti, in quanto donna,
alla categoria simbolica delle “creature bianche”, ma una potenzialità espressa
come cambiamento in una determinata circostanza. Un mutamento che
avrebbe dovuto allontanare Peleo, e che sicuramente lo avrebbe indotto a
desistere se questi non fosse stato consigliato da Chirone. E allora?
Analizzando i valori semantici della parola greca
σηπία (sepia)
si scopre che esiste un’antichissima associazione fra i molluschi in qualità di
cibo di mare e un effetto afrodisiaco. Ateneo, citando Diocle, afferma che i
molluschi invogliano e motivano al piacere, inducendo nelle persone desideri
sessuali; ma in questo caso si tratta dell’effetto prodotto come alimento, non
dell’identità di seppia. Se l’uso del termine è figurato o metaforico, quale
significato poteva aver assunto in rapporto alle funzioni svolte dalle donne in
seno alla società delle polis?
Indagando sui ruoli sociali della donna nel mondo
greco, ci si imbatte nella concezione pubblica della prostituzione che, al
contrario di quanto accadeva nel mondo ebraico in cui era severamente punita, aveva
un riconoscimento legale quale attività lavorativa soggetta a una particolare tassazione.
Ad Atene, come nella maggior parte delle polis,
il meretricio ed ogni sorta di favore sessuale concesso a pagamento erano disprezzati
e condannati dalle donne di casta elevata, che praticavano appunto la castità,
similmente alle sacerdotesse che potevano consacrarsi a vita, ma presso i ceti
popolari, fino alle classi medie, esistevano varie categorie di meretrici. Al
livello più basso erano le pornai, molte delle
quali erano straniere di origine orientale che, come altre ragazze povere della
città, vivevano nei postriboli contrassegnati all’esterno dalla vistosa
immagine fallica del dio Priapo, che fungeva da insegna pubblicitaria. Tali
squallide dimore erano localizzate in Atene nella zona del Pireo e vi si accedeva
mediante un obolo che dava diritto ad esaminare le ragazze seminude e
intavolare con loro la contrattazione sul pagamento. Ben diversa era l’immagine
sociale delle auletridi, o suonatrici di flauto, che intrattenevano i
clienti a pagamento spesso in spettacoli per soli uomini, con musica, danze
artistiche o lascive, concedendosi per cifre più elevate delle pornai e solo a chi era di loro gradimento. Le auletridi
più anziane creavano scuole per le più giovani in cui insegnavano, oltre alla
cosmetica, alla musica e alla danza, l’arte di far innamorare gli uomini con tecniche
di seduzione e schermaglie amorose.
Accantonando altre categorie, consideriamo quella
più elevata e culturalmente rilevante perché includeva – come ha tramandato la
storia – Aspasia, Taide, Teoride, Archippe,
Antifane, Archenassa, Diotima, Clessidra, Targhelia e
Leonzia, per citare solo le più note, ossia le hetairai
o etere, che letteralmente vuol dire “compagne”[27].
La maggior parte delle etere proveniva da
famiglie di classi elevate che avevano dato loro educazione raffinata e istruzione
in filosofia, letteratura, musica e vari altri campi del sapere, cosa che le
facilitava nel diventare compagne e talvolta collaboratrici di filosofi e poeti.
Esiste un’antologia ateniese di epigrammi delle etere[28].
In molti casi, diventavano etere le ragazze che
non sopportavano i rigidi costumi e i doveri delle padrone di casa greche che,
pur impartendo ordini ad ancelle e schiave, erano personalmente impegnate in
lavori quotidiani che andavano dalla tessitura alla realizzazione di oggetti
artigianali, esercitando le abilità con una cura propria dello status di areté,
che includeva nelle virtù anche l’eccellere in questi compiti. Le etere si imbiondivano
i capelli per incarnare un ideale di bellezza celebrato a quel tempo, perché la
loro fortuna dipendeva dalle doti estetiche, considerate un valore assoluto dai
Greci, e non dall’intelligenza, come alcune di esse cercavano di far intendere.
D’altra parte, una ragazza con risorse di cognizione e saggezza non aveva bisogno
di prostituirsi per trovare un posto nella vita.
Anche se famosi filosofi ebbero etere per compagne,
un cittadino ateniese, sposato e preoccupato di conservare una buona
reputazione, le evitava. Inoltre, queste donne, che spesso si concedevano per settimane,
mesi o anni allo stesso uomo, non godevano della maggior parte dei diritti
civili ed erano bandite da tutti i templi delle città, eccetto quello della
loro protettrice Afrodite Pandemia[29].
Un particolare da non trascurare è che la legge
obbligava le etere, proprio in quanto potenzialmente indistinguibili dalle
caste vergini e dalle irreprensibili signore della città, ad indossare abiti
fiorati o almeno contrassegnati da qualche macchia cromatica che ricordasse un
fiore. Frine, divenuta celebre per essersi offerta di pagare la ricostruzione
delle mura di Tebe purché vi incidessero il suo nome, era solita presentarsi in
pubblico coperta da veli contrassegnati da qualche macchia floreale, così da
attrarre lo sguardo e creare aspettative per il gioco di disvelamento, che compiva
alle Eleusine e Posidonie, feste durante le quali lasciava cadere i veli davanti
a folle ammirate e, sciolte le lunghe chiome, si immergeva nuda come Venere
nelle acque[30].
Molte etere assumevano il nome di Sepia, e
fra queste vi erano sicuramente Archippe e Antifane[31], e si
desume che il termine fosse diventato nel linguaggio comune sinonimo di etera.
Sembra che il vocabolo designante il mollusco fosse impiegato per riferirsi all’essenza
fisica ed erotica della femminilità, in contrapposizione con quella psichica, caratterizzata
da sensibilità, saggezza, acume e virtù domestiche. Linton
Humphrey è stato fra i primi a rilevare che sepia
nel linguaggio gergale antico indicava i genitali esterni della donna, e ancora
oggi la parola equivalente del greco moderno, soupiá,
indica la vulva[32].
Dunque, abbiamo elementi sufficienti per risalire
agli eventi reali all’origine del mito e interpretare le metamorfosi di Teti come
travestimenti[33]: mutata
in seppia, ossia in etera bionda con una tunica fiorata identica a quella delle
colleghe di ruolo, e dunque mimetizzata come una seppia sul fondo del mare,
poteva sfuggire a Peleo e, anche se riconosciuta, poteva puntare sul fatto che
questi, credendo che fosse divenuta realmente una prostituta, non si sarebbe mai
abbassato al rango di un suo cliente. E qui entra in gioco Chirone il quale,
garantendo che Teti non era diventata una vera etera ma si era solo travestita,
supporta Peleo nel fingersi un ignaro aspirante alla compagnia della Nereide e
nel giungere, infine, a possedere la seppia divina[34].
Da quell’amplesso si vuole sia nato Achille, che
certo non difettava in metis e, per un popolo che credeva nell’ereditarietà
dell’intelligenza salvo eccezionali interventi divini, non si poteva immaginare
un concepimento migliore[35]. Ma,
rimanendo a Teti e al suo essere la madre di Metis, dalla quale invece discende
se si accetta la tesi di una Metis quale madre primordiale, non è difficile
rendersi conto che entrambe le dee personificano lo stesso concetto.
L’identificazione di Metis con
Teti è più di una semplice ipotesi, e spiegherebbe perché Omero, pur trattando della
metis diffusamente e in ogni suo aspetto, non cita mai Metis, ma solo Teti,
l’altra dea-Nereide che noi consideriamo sua madre solo perché seguiamo la
teogonia più consolidata nella tradizione storico-letteraria.
Inizio terza parte.
Aìthuia, la prodigiosa cornacchia di mare, è
identificata con Atena per la metis. I marinai primordiali in epoca arcaica avevano imparato a seguire l’Aìthuia
o koróne thalássios
al fine di procedere speditamente nelle acque basse senza rischiare di schiantarsi
contro gli scogli, per evitare vortici, correnti improvvise e rischi di ogni
sorta; quando un’Aìthuia sorvolava la nave in volo calmo e planato i marinai
sapevano che non vi erano pericoli nei paraggi e nell’immediato, come sapevano
che il suo improvviso tuffarsi in acqua indicava un pericolo imminente e imponeva
prudenza nella navigazione, suggerendo di fare attenzione agli elementi per
cercare di decifrare i segni di un incombente problema.
Quando le condizioni del mare erano
tali da costituire un’aporia per il nocchiero, incapace di trovare una soluzione
o terrorizzato da una tempesta ingovernabile, la presenza di un’Aìthuia, con i
suoi movimenti e le sue condotte, poteva fornire indicazioni su come agire e affrontare
la difficoltà. Verosimilmente, il comportamento dell’uccello acquatico, regolato
dai suoi meccanismi neurobiologici di orientamento e di autoconservazione, che
fungono da bussola e da promotori della fuga sulla terraferma in caso di variazioni
barometriche che annunciano tempesta, può aver avviato lo sviluppo della
tradizione di una cornacchia di mare pilota e maestra dei timonieri, attraverso
l’enfasi celebrativa dei marinai scampati.
L’Aìthuia, ossia l’uccello che
affronta l’imprevedibilità del mare e la paura dell’ignoto, come si dice nel
saggio del nostro presidente al quale mi rifaccio ampiamente in questo paragrafo[36], aveva colpito la fantasia in epoche antichissime, al punto da suggerire
un mito arcaico secondo cui questi uccelli acquatici, capaci di indicare la via
per sfuggire alle temute Rocce Erranti o presumibili rocce emergenti per
fenomeni vulcanici, erano stati uomini esperti navigatori in una vita
precedente; in particolare, in loro vi sarebbe stata l’anima dei progenitori
ancestrali che avevano inventato la “caccia in mare” ed erano poi stati trasformati
in uccelli[37].
Ma che uccello era l’Aìthuia?
Con quale specie possiamo identificarla?
Nella Grecia arcaica non si
adottavano criteri di classificazione naturalistica paragonabili a quelli moderni
e, per distinguere i tipi aviari, si seguivano denominazioni di costume locale,
spesso originate da sintesi tra caratteri morfologici e comportamento. E gli
autori, anche nelle epoche successive alle classificazioni di Aristotele, con
lo stesso termine potevano tanto denotare un esemplare di una specifica specie
aviaria, quanto connotare la generica appartenenza alla categoria degli uccelli
acquatici. Per orientarsi, i grecisti hanno tradizionalmente fatto riferimento
al “Glossario degli Uccelli Greci” di D’Arcy W. Thompson[38] che distingue láros, dúptes, eróidios e aíthuia; tuttavia, quando tali nomi ricorrono nei testi,
raramente si comprende con precisione di quale uccello si tratti e spesso per l’aíthuia koróne thalássios rimane il dubbio fra cormorano, folaga,
chiurlo, svasso, puffino, gabbiano argentato e gabbiano tuffatore. Con ogni
probabilità, come sarà chiaro più avanti, Aìthuia era divenuto nel tempo un
nome simbolico indicante ogni uccello acquatico dotato della metis divina
che ne aveva giustificato l’identificazione con Atena.
Per comprendere meglio,
mettiamoci idealmente in viaggio e raggiungiamo dall’azzurro mare dell’Attica l’antichissima
rivale di Atene, Megara, patria del matematico
Euclide e del poeta di elegie Teognide, nonché dei primi
commediografi e di numerosi attori di mimiche e farse popolari[39]. Da sempre Megara era ritenuta una terra in
cui l’invenzione, la finzione e la creazione erano nello stile di vita di tutti
i cittadini che, nel bene e nel male, erano considerati υποκριτής (attori o
ipocriti)[40]. Quale terra migliore per la nascita di miti?
L’idea di avvicinarci dal mare
è suggerita dalle prime pagine della Periegesi della Grecia di Pausania[41], in cui si legge che avvicinandosi alla costa di Megara
si può vedere un promontorio (skópelon) che si
staglia contro il cielo dominando il mare: la Punta di Atena Aìthuia.
Proprio in quel luogo si trova
la tomba del re di Atene Pandione. L’apparente
incongruenza della sepoltura di un monarca ateniese nel territorio di una polis
antagonista è spiegata da un mito che ha per protagonista l’Aìthuia. I figli di
Metione, il più noto dei quali è Dedalo, padre di
Icaro, con un’azione militare deposero dal trono Pandione,
ma Atena, prendendo le sembianze di un’Aìthuia, accorse in suo aiuto: nascose
il deposto re di Atene sotto le sue ali e lo portò in volo fino a Megara, dove avrebbe vissuto un esilio dorato senza correre
altri rischi[42].
L’Aìthuia emerge dalla notte
dei tempi megaresi per suggerire un modo in cui la divinità vigente (Atena) avrebbe
potuto operare un salvataggio provvidenziale da celebrare e tramandare ai
posteri quale fatto prodigioso, distogliendo l’attenzione dalla cronaca di
fatti da non divulgare e contribuendo ad occultare i mezzi umani realmente
impiegati per salvare quel re di Atene che gli storici contemporanei chiamano Pandione II, per distinguerlo da un predecessore omonimo. Anche
se è probabile un finto rapimento da parte di sodali della polis vicina, non
sapremo mai cosa è realmente accaduto e come sia stato possibile: le ipotesi
vanno dalla richiesta di protezione in cambio di segreti militari a “doni da re”
per corrompere le autorità di Megara.
Atena Aìthuia costituisce un
ottimo modello per introdurre un criterio che aiuta a distinguere fra miti di
origine arcaica e miti di origine antica: i primi contengono delle costruzioni
irrealistiche e fiabesche alle quali non crederebbe neanche un bambino, come
appunto un uccello che nasconde un uomo e lo porta in volo per una quarantina
di chilometri; mentre i secondi, ammesso che si creda nell’esistenza degli dei,
conservano una discreta plausibilità[43].
La maggiore difficoltà nell’orientarsi
per riconoscere l’epoca di appartenenza di una trama consiste nel fatto che non
vi è stato un cambiamento netto, caratterizzato dall’abbandono delle vecchie
storie per le nuove, ma vi sono state sovrapposizioni, modifiche parziali, rimaneggiamenti,
commistioni e semplice affiancamento di nuove e vecchie trame. Un campione
impareggiabile di questo atteggiamento culturale è senz’altro Omero. L’autore
dell’Odissea propone con la stessa solennità poetica e narrativa con la quale
fa riferimento a fatti storici, tanto gli aiuti e i supporti di Atena a
tecniche e artifici di metis impiegati da Ulisse, quanto leggende imperniate su
fantasie chimeriche apparentemente prive di rapporto con la realtà.
l’Aìthuia come creatura divina
appartiene all’epoca primitiva in cui si attribuivano poteri magici agli
uccelli e li si adorava come entità superiori. Quando nascevano le teorie teogoniche
sulla base dell’idolatria di esseri umani, gli animali potevano essere soppiantati
o, se il loro culto era sostenuto da forti tradizioni di sostrato, potevano
essere identificati con i nuovi dei. È esemplare quanto era accaduto in Egitto,
dove il falco era stato identificato con Horus, ma anche con Ra e Mentu, lo struzzo con Kebechet, il nibbio con Nefti o
Iside, l’ibis con Toth e l’anatra con Geb.
L’identificazione dell’Aìthuia
con Atena rende evidente la forzatura nel volere assimilare due mondi diversi in
cui gli autori della trama dei miti partono da differenti visioni della realtà.
Stride un’Atena che si trasforma in uccello che trasporta un re come un moderno
volo di linea con l’Atena che protegge Ulisse, il re di Itaca, in un rapporto
che, da un canto assomiglia a quello che esisteva in epoca moderna fra la
regina Elisabetta I e Sir Francis Drake, capo dei corsari, dall’altro sembra a
volte, nel testo omerico, il rapporto fra due intimi amici e sodali nelle
avventure.
Questo rapporto umanissimo fra
Odisseo e la dea era di pubblico dominio nel mondo antico e considerato alla
stregua della protezione che i potenti concedono ai propri beniamini. Un
esempio lo abbiamo nei giochi commemorativi in onore di Patroclo[44], in cui Ulisse deve affrontare nella corsa Aiace, una sorta di Usain
Bolt dell’epoca, ossia un velocista imbattibile. L’innamorato della principessa
spartana Penelope doveva vincere con ogni mezzo la gara perché la vittoria gli
avrebbe garantito la mano dell’amata, sicché invoca così la sua dea: “Ascoltami,
potente, e vieni nella tua clemenza, ad aiutare i miei piedi”[45]. La risposta non si fa attendere: Ulisse sente di avere più energie ma,
soprattutto, nella corsa una parte della pista era stata sporcata dallo sterco
dei buoi transitati come animali da sacrificare nella cerimonia inaugurale in
onore di Patroclo, e Atena fa in modo che sul guano finisca Aiace, così da
scivolare e cadere prima dell’arrivo. Un artificio di metis che fa pensare all’astuzia
di Antiloco per vincere la corsa dei carri: una furbizia umana non certo un prodigio
magico, che tutti i presenti attribuiscono ad Atena[46].
Questo passo è molto efficace nella
descrizione del rapporto fra Odisseo e la dea: “Ulisse e Atena si intendono
come ladroni. È la dea che si compiace di ricordarglielo, nel momento in cui,
senza saperlo, Ulisse approda alle spiagge di Itaca. Atena, che vuol mettere
alla prova la metis del suo protetto, assume le sembianze di un adolescente e
gli rivela il nome del paese dove si è appena risvegliato. Subito, senza smentirsi,
Ulisse inventa qualche bella menzogna: «Mai mancavano nel suo spirito le
astuzie». Atena l’ascolta sorridendo: «Quale furbo, quale scaltro, anche se
fosse un dio, potrebbe superarti in astuzie di ogni genere! Torni in patria e
non pensi altro che a racconti bugiardi, alle menzogne che ti sono care fin
dall’infanzia… Ma non parliamone più! Entrambi ben conosciamo le astuzie: di
tutti i mortali tu sei il migliore in consigli e discorsi, io fra tutti gli dei
sono famosa per metis e accortezza»”[47].
Se l’Atena di Ulisse è una
donna reale e potente, come può essere una principessa ateniese, padrona della
politica, pratica di giochi ginnici ed esperta di navigazione, trova facile
spiegazione il racconto del ruolo fondamentale che svolge nel momento più
importante della vita del figlio del suo amico e protetto. Atena, infatti, si
occupa di tutta l’organizzazione del viaggio di Telemaco, sceglie personalmente
l’imbarcazione, ne cura il varo all’entrata del porto e, al momento della
partenza, siede a poppa, occupando il posto del timoniere; infine, completa l’opera
facendo alzare un vento favorevole alla navigazione[48].
La transizione dalle divinità
zoomorfe all’Olimpo dell’età classica deve essere durata molti secoli e,
considerata l’arcaicità dell’Aìthuia, è ragionevole supporre l’esistenza di
divinità di epoca intermedia, collegate alla metis necessaria ad affrontare la
vita in mare e i pericoli della navigazione.
E, infatti, troviamo un ottimo
esempio nella dea bianca del mare, Ino Leucotea, la
cui antichissima tradizione era tanto diversa da quella di Poseidone, da
costituirla come antagonista per eccellenza. Il suo ruolo, svolto attraverso la
metamorfosi aviaria, si apprezza bene nell’episodio dell’Odissea in cui Ulisse vede
già profilarsi all’orizzonte la terra dei Feaci, quando viene colpito dalla terribile
collera di Poseidone, che scatena una tempesta terrorizzante. I venti soffiano
all’impazzata, onde gigantesche si sollevano e si scontrano in tutto il mare,
mentre con la notte cala la nebbia che contribuisce a confondere l’acqua che
diluvia dal cielo con i flutti marini scagliati in alto con violenza inaudita:
Odisseo sembra già spacciato. Ma, miracolosa e provvidenziale, dalla schiuma
bianca di un’onda emerge un’Aìthuia, quale luce brillante nelle tenebre della
tempesta, che porta la vela della salvezza che consentirà a Ulisse di salvarsi
e raggiungere la terraferma. Omero ci dice che quell’Aìthuia non era altri che Leucotea, celebrata per il valore talismanico dei suoi
doni, evidente nella vela salvifica donata all’eroe greco. L’episodio è ricollegato
alla cerimonia degli iniziati di Samotracia che venivano posti su un trono,
coronati d’olivo e, in ricordo della vela purpurea donata da Leucotea a Ulisse, fasciati con una benda porpora che
talvolta copriva la fronte, e che dopo la cerimonia avrebbero dovuto portare
come talismano per scongiurare le insidie del pelago[49]. Omero, che appare come un geloso custode di tutte le tradizioni, non
perde l’occasione per onorare quella di una divinità che deve aver preceduto l’Atena
del mare.
Le due interpretazioni più
antiche, sul ruolo dell’Aìthuia e sulla sua identificazione con le due dee del
mare, forniscono interessanti tracce per desumere altri aspetti dell’affascinante
rapporto fra la spiritualità magica arcaica e la cultura classica degli dei
olimpici.
La prima interpretazione è
considerata dagli studiosi più autorevoli un’esegesi di Leucotea
Aìthuia[50] e, sostanzialmente, afferma che l’Aìthuia è una “portatrice di luce”,
ossia phosphóros, secondo una tradizione che la
accosta all’astro che i marinai vedevano brillare in cielo al primo chiarore,
dopo le tenebre della notte. Così come attribuivano alla Stella del Mattino la
funzione di portare la luce del giorno, riconoscevano alla prodigiosa cornacchia
di mare il ruolo di illuminare le tenebre, sia materialmente sia
metaforicamente.
La seconda interpretazione
tende a spiegare il perché dell’identificazione dell’Aìthuia con Atena: “Come
quell’uccello, essa ha insegnato agli uomini a navigare sulle imbarcazioni, attraversando
il mare da un capo all’altro”[51].
Le due interpretazioni, prese
insieme, ci aiutano a ricostruire l’evoluzione da un’epoca in cui l’adorazione
degli astri comportava un’attribuzione totalmente arbitraria e fantasiosa di
poteri ai corpi celesti in rapporto alle vicende umane, all’epoca in cui si
riconosce il ruolo di un’intelligenza (metis) di un uccello o di una donna.
Un episodio mitico emozionante,
narrato con l’intensità immaginifica di una sceneggiatura cinematografica e
sicuramente collegato a un fatto realmente accaduto, ci informa allo stesso
tempo sull’impiego di uccelli acquatici nelle tecniche di navigazione e sul
rapporto fra l’Aìthuia e Atena. Si tratta di una vicenda dell’epopea di Giasone
e gli Argonauti, della quale si hanno due versioni, quella delle Argonautiche
attribuite a Orfeo, e quella di Apollonio Rodio. Un solo fatto di realtà è
certo: la nave degli Argonauti riesce a transitare attraverso il
pericolosissimo tratto di mare delle Rocce Erranti. L’impresa, straordinaria e
fortunosa, deve avere stimolato la creatività celebrativa. Ma, consideriamo le
due versioni del mito.
I racconti sono costruiti a
partire da un fenomeno naturale difficile da interpretare perché già all’epoca
conosciuto attraverso la deformazione immaginifica dei naviganti che lo avevano
visto: delle masse rocciose gigantesche, come degli enormi faraglioni, si
spostano sul pelo dell’acqua, probabilmente quali estremità superiori di terre
emergenti per fenomeni vulcanici. Il colore è sui generis, perciò sono detti
Rocce Cianee, e, anche se gli spostamenti sembrano
casuali e passivi, come suggerisce il nome di Rocce Erranti, si narra di due
pareti rocciose che, da quinte dello spazio che si apre al cospetto dei marinai,
corrono l’una contro l’altra come due porte scorrevoli che si possono chiudere
a ghigliottina sulla malcapitata imbarcazione che tenti di attraversarle.
Nel racconto delle Argonautiche
orfiche[52], un uccello acquatico simile all’Aìthuia, l’eróidios[53], mentre la nave solca sicura il tratto di mare che la separa dal rischio
fatale, va ad appollaiarsi sull’albero maestro. Inviato da Atena, il pennuto sa
bene cosa fare: alla giusta distanza spicca il volo e comincia a roteare per
esplorare gli spazi e i movimenti, e sembra quasi volersi rendere imprevedibile
nella direzione all’intelligenza che muove le Rocce Cianee.
Vede che il movimento è tutt’altro che erratico, e consiste invece in un’alternanza
di separazione e congiungimento; allora, calcola il tempo necessario all’attraversamento,
punta lo spazio appena aperto dalla separazione e si scaglia fiondandosi alla
massima velocità secondo la direzione esatta per evitare ogni impatto. La vertiginosa
chiusura delle pareti rocciose durante l’attraversamento si compie un attimo
prima che l’uccello abbia superato totalmente il varco, così che la punta della
coda rimane tagliata; ma il volatile simile all’Aìthuia è già in rotta per il
Ponto Eusino, indicando agli Argonauti il modo e la via. Gli eroici naviganti
seguono l’esempio e riescono a sfuggire per un pelo alla stretta delle Rocce Cianee, e anche loro, come l’uccello ci aveva rimesso le
penne dell’estremità della coda, perdono alcuni ornamenti della poppa della
nave.
La folaga, airone o cornacchia
di mare che fosse, era stata prima presagio della protezione della dea e poi
metis espressa come abilità di affrontare e risolvere i problemi di
navigazione, come in una prestazione speciale di una funzione normalmente
svolta a quell’epoca. Infatti, i naviganti antichi prima che fosse inventata la
bussola sfruttavano la capacità degli uccelli di orientarsi verso i punti
cardinali per la migrazione[54], così come in assenza di barometro, seguivano la loro abilità naturale
nel riconoscere i cambiamenti meteorologici.
Consideriamo ora lo stesso
episodio nella versione di Apollonio Rodio[55].
In questo caso la trama si
sviluppa inizialmente con un maggiore realismo, quasi da leggenda, perché l’intervento
di Atena si manifesta attraverso l’invio agli Argonauti di Tifi, un pilota
dalle eccezionali abilità di navigazione, la cui perizia e le cui virtù tecniche
lo avevano reso celebre in quegli anni. Ma, nell’appressarsi della nave alle
Rocce Erranti che si congiungono e si riaprono minacciosamente, ciò che accade
sembra svilupparsi nella dimensione di un sogno[56]: Atena assume dimensioni gigantesche e afferra e solleva con le mani la
nave nel momento del massimo rischio e, mentre con la mano sinistra tiene a
bada la parete rocciosa incombente, con la destra spinge a grande velocità l’imbarcazione
attraverso i flutti dello stretto passaggio temporaneo. In altre parole, impiega
un superpotere per fare ciò che neanche il più grande dei nocchieri avrebbe
potuto tentare. Apollonio, anziché centrare l’attenzione sulla metis dell’uccello,
sembra voler enfatizzare l’aspetto di impresa impossibile ai mortali per quell’evento,
rappresentando l’intervento della dea in modo del tutto fiabesco.
I miti degli Argonauti testimoniano
un tempo in cui Atena ha ormai coperto nella cultura e nell’immaginario
collettivo il campo dell’intelligenza pratica e del valore simbolico attribuiti
in epoca arcaica esclusivamente all’Aìthuia, ma la dea nell’ambito strettamente
marinaro non è solo guida dei nocchieri e modello di comportamento per i
naviganti, ma è anche ispiratrice e patrona dei costruttori delle navi. Le due
attività sono ricondotte allo stesso tipo di intelligenza[57].
Fine della terza parte – continua.
Monica Lanfredini
BM&L-10 ottobre 2020
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2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale
non-profit.
[1] Unica eccezione: C. Diano, Forma
ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco. Neri Pozza, Vicenza
1967. Diano, attraverso una lettura fenomenologica del pensiero dell’antica
Grecia, descrive alcuni aspetti della metis nell’opposizione fra Ulisse e Achille
(si veda pp. 56 e seguenti).
[2] Jeanmaire
H., in Revue Archéologique,
pp. 12-39, 1956.
[3] Cfr. Esiodo [attr.]
Scudo, 214 e seguenti.
[4] Il leopardo o Panthera pardus e altri
felidi simili del genere Panthera hanno
un manto fulvo costellato da macchie in forma di rosette. In Italia, nel linguaggio
popolare, erroneamente si chiama pantera solo la pantera nera; il colore nero è
dovuto alla mutazione di un gene recessivo nel leopardo e dominante nel giaguaro.
[5] Esopo, Fab., 37 e 119. Naturalmente
l’attribuzione di metis agli animali, secondo processi tipici dell’intelletto
umano, è il prodotto di un pensiero “umanomorfo” originato
in epoca arcaica. Le conoscenze neuroscientifiche oggi ci consentono di comprendere
le peculiarità neurofunzionali e i limiti dell’intelligenza animale.
[6] Aion
dipenderebbe dalla radice sanscrita -ayu che
dà origine alle parole che designano la forza vitale dalla quale deriva la vita
umana, così come a termini riferiti alle temporalità della vita (Cfr. Émile Benveniste, Expression indo-européenne
de l’éternité. Bull Soc Linguistique 38, 1937). Sono state proposte numerose altre
etimologie, nessuna delle quali ha trovato consenso unanime.
[7] Si veda in Giorgio Agamben, Infanzia
e Storia. Einaudi, Torino 1979. Gli affascinanti studi su aion sono stati analizzati al nostro Seminario Permanente
sull’Arte del Vivere.
[8] Questa sintesi interpretativa, basata
sugli studi di H. J. Mette, è coerente con la visione di Marcel Detienne e Jean-Pierre
Vernant.
[9] Il problema maggiore è consistito
nel fatto che i dati di conoscenza sono emersi nel tempo in tanti differenti lavori
d’archivio e archeologici concepiti in progetti di studio con fini diversi,
spesso considerati super-specialistici e conseguentemente ignorati dagli studiosi
che si occupavano di argomenti più generali. Un’idea di questa frammentazione
si può avere consultando le bibliografie monumentali fornite da Marcel Detienne
e Jean-Pierre Vernant, che hanno avuto il merito di estrarre tutto quanto riguardasse
Metis, facendolo entrare in una stessa memoria.
[10] Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant,
Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, p. 97, BU Laterza,
Roma-Bari 1999.
[11] Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant,
op cit., idem.
[12] Uno dei più consultati al mondo,
perché estremamente compatto, è quello di Michael Grant e John Hazel (Dizionario
della Mitologia Classica, attualmente pubblicato in Italia da CDE Milano su
una licenza SugarCo del 1989, quale traduzione di Who’s Who in Classical Mythology,
con copyright nominale degli stessi autori risalente al 1979), autori che
hanno scelto di riportare in estrema sintesi i temi mitici nelle versioni più
note e semplificate, nello stile delle mini-trame delle guide televisive.
[13] Ho affinato i metodi di questo
esercizio attraverso anni di partecipazione al seminario permanente sull’Arte
del Vivere.
[14] O. Kern, Metis bei Orpheus, «Hermes»,
pp. 207 sg., 1939.
[15] Marcel Detienne e Jean-Pierre
Vernant, op cit., p. 98.
[16] O. Kern, Orphicorum
Fragmenta, frg. 168, p. 201, Berlino 1963.
[17] Platone, Filebo, 66c.
[18] Di fronte all’incapacità, all’impossibilità
o alla rinuncia ad impiegare processi di logica elementare per spiegare esperienze
percepite come realtà fenomenica, si faceva ricorso a forme di pensiero primitivo
o magico che, lungi dall’essere un esercizio di fantasia a briglia sciolta,
presenta delle caratteristiche costanti. Una delle caratteristiche del pensiero
paleologico è l’identità dei predicati in rapporto ai soggetti, che
consente di accostare questo pensiero a quello dei primitivi, che ancora
esistono in alcune regioni della terra, e a quello delirante degli psicotici,
come è stato illustrato dal nostro presidente in numerose occasioni. Nel pensiero
paleologico se due persone fanno la stessa cosa o hanno una stessa virtù
(identità dei predicati), anche se sono diverse e lontane fra loro nello spazio
e nel tempo, possono essere fra loro identificate (identità dei soggetti). Non
si può escludere che alle origini del pensiero mitico possa aver operato anche un
meccanismo di questo genere.
[19] E. Lobel, Oxyrhyncus Papyri,
XXIV, 1957, n° 2390, cit. in Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op cit., p.
103. La citazione dei titoli della bibliografia essenziale su questo papiro eccederebbe
le dimensioni di questo intero scritto.
[20] Marcel Detienne e Jean-Pierre
Vernant, op cit., p. 124.
[21] Scolio a Licófrone,
Aless., II 175, pp. 84 e segg.; cit. in Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant,
op cit., p. 124.
[22] Er., VII 191-2, cit. in Marcel
Detienne e Jean-Pierre Vernant, op cit., p. 124.
[23] Cfr. Marcel Detienne e Jean-Pierre
Vernant, op. cit., p. 126.
[24] Cfr. Aristofane, Le Donne al
Parlamento (Ecclesiazuse).
BUR, Rizzoli, Milano 1984. In un’altra traduzione: “Si direbbe che si è applicata
una barba a delle seppie rosolate” (Ecclesiazuse, 126, cit. in Detienne e Vernant, p. 127).
[25] J. Taillardat, Les Images d’Aristophane, p. 61, 1965.
[26] Mi riferisco al papiro cosmogonico
di Alcmane scoperto da Lobel, che ho citato in precedenza.
[27] Cfr. Will Durant, Storia
della Civiltà – La Grecia, vol. II, libro terzo: L’Età dell’Oro (480-309 a.C.),
pp. 69-70, Edito Service S. A. Ginevra (1939-1966) con Arnoldo Mondadori Editore
(per l’edizione italiana: 1956-1966), Ginevra 1966.
[28] Mahaffy, Greek Life and Thought, p. 72, London 1887.
[29] Cfr. Will Durant, op. cit., p. 70.
[30] Cfr. Will Durant, op. cit., idem.
[31] Cfr. Archippe,
frammento 27, I, p. 802 Edmonds; Antifane,
frammento 26, II, p. 172, Edmonds; cfr. anche F. Bechtel, Die attische frauennämen, 1892, Indice (maggiori dettagli nei saggi di
Detienne e Vernant su collocazione delle opere citate e biblioteche per il
reperimento).
[32] Cfr. Marcel Detienne & Jean-Pierre Vernant, Cunning
Intelligence in Greek Culture and Society, The University of Chicago Press,
Chicago and London 1991.
[33] In un’epoca in cui non esistevano
documenti di identità, fotografie e codici fiscali, e l’identificazione si
basava sul riconoscimento visivo, il ricorso al camuffamento e al cambiamento
di identità era piuttosto frequente.
[34] A supporto di questa interpretazione vi è anche
la dicotomia culturale ateniese che contrapponeva le donne intelligenti e sagge
a quelle sciocche e lascive: entrambe potevano essere belle, ma la bellezza virtuosa
(areté) rendeva le prime dee immortali, mentre la bellezza adoperata
strumentalmente rendeva le seconde, nella migliore delle ipotesi, aspiranti al
ruolo di ninfe.
[35] Le doti di astuzia di Achille
sono state associate in un’ipotesi all’espressione diffusa dalla Magna Grecia a
tutto il territorio italico di “figlio di… buonadonna”
(figlio di etera/sepia) per indicare un furbo di tre
cotte; ma l’ipotesi non ha trovato supporto in prove documentali.
[36]
G. Perrella, AÍTHUIA - L’uccello che affronta l’imprevedibilità del
mare e la paura dell’ignoto. BM&L-Italia, Firenze 2012. Il saggio fu esteso
come materiale per il Seminario Permanente sull’Arte del Vivere dell’anno in corso,
e costituì uno spunto per studiare il rapporto fra strategie intellettive di
adattamento e ragione ispirata alla concezione morale.
[37] La tradizione, tramandata da
Dionisio in Ixeuticon, è riferita da Marcel Detienne
e Jean-Pierre Vernant, op cit., p. 161. Oggi diremmo che per metempsicosi si
era trasferita in loro l’anima degli ominidi protoumani che avevano scoperto la
possibilità di pescare come gli uccelli acquatici e sfamarsi di pesce.
[38] Ristampato da Hildesheim nel 1966.
[39] La commedia stessa sarebbe
stata inventata da Susarione di Megara,
secondo un’antichissima tradizione attestata da molti scritti, ma contestata da
Aristotele nella Poetica.
[40] L’antica espressione “lacrime megaresi”
indicava le lacrime di chi fingeva di pentirsi o dispiacersi per le conseguenze
di una cattiva azione che aveva compiuto deliberatamente; nel Medioevo fu sostituita
da “lacrime di coccodrillo”, basata su una suggestione popolare che interpretava
come pianto la periodica lacrimazione fisiologica di questi animali.
[41] (Cfr. Pausania, Periegesi della
Grecia I, 5, 3). L’opera pubblicata nel II secolo d.C. è una straordinaria raccolta
di storia geografica suddivisa in dieci libri che contengono le documentazioni
autentiche di viaggiatori (periegeti) e storiografi di età ellenistica, età classica
come Erodoto, Tucidide, Senofonte e Polibio, e di epoca arcaica, quali Eumelo di Corinto, i lirici e gli autori del ciclo epico.
[42] Esichio,
n° 2748. Kurt Latte, Copenaghen 1913-2009. Esichio
fu un grammatico (oggi diremmo linguista lessicografo) greco nato ad Alessandria
d’Egitto, autore di un famoso glossario di termini greci rari e oscuri, il cui titolo
è, in italiano, Collezione alfabetica di tutte le parole. Nel glossario si
trova una nota sulla vicenda di Pandione. L’opera
sopravvive in un manoscritto fortemente corrotto del XV secolo, custodito nella
biblioteca di San Marco a Venezia. L’unica edizione contemporanea è quella di
Kurt Latte avviata nel 1913 con la pubblicazione del primo volume e completata
nel 2009 con l’ultimo volume, grazie al patrocinio dell’Accademia Danese di Copenaghen.
La difficoltà per il reperimento della nota di Esichio
può spiegare l’erronea ricostruzione della vita di Pandione
riportata in alcuni testi, come in Wikipedia.
[43] Molti anni fa, Giuseppe Perrella
propose uno stimolante paragone fra i due tipi di miti e le due categorie principali
di deliri della psichiatria classica: 1) i deliri illogici e irrealistici
come quello del paziente che afferma di aver avuto una Ferrari fino a qualche
minuto prima, ma che deve avergliela portata via un extraterrestre di passaggio
con la sua astronave; 2) deliri logici e strutturati come quello di uno
psicotico che sosteneva di essere stato licenziato perché faceva il tifo per una
squadra di calcio rivale di quella del suo direttore.
[44] Da questo genere di giochi, funerari
e celebrativi, nasceranno poi le Olimpiadi.
[45] Cit. in Marcel Detienne e Jean-Pierre
Vernant, op. cit., p. 173.
[46] Aiace stesso dice: “Ah, come ha
fatto inciampare i miei piedi la dea che, sempre, come una madre sta accanto a Ulisse
e lo protegge!” (Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op. cit., p. 173.)
[47] Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op. cit., p. 173.
[48] Cfr. Dietrich Wachsmuth, Pompimos ho daimōn:
Untersuchung zu den antiken Sakralhandlungen bei Seereisen. Tesi/dissertazione pubblicata a
Berlino nel 1967.
[49] Si veda in Scoliaste di Apollonio
Rodio I, 917; Cfr. anche, per la cerimonia di Samotracia, Francesco Zanotto,
Dizionario Pittoresco di ogni Mitologia d’Antichità d’Iconologia e delle
Favole del Medio Evo, Voll. 1-11, Vol. 1, p. 31, 1844.
[50] Scoliaste di Apollonio Rodio,
I 917. Si ricorda che Apollonio Rodio fu un erudito poeta greco nato ad
Alessandria d’Egitto nel 295 a.C., discepolo di Callimaco e collega di Eratostene,
bibliotecario della mitica Biblioteca d’Alessandria, si trasferì a Rodi dove morì
nel 215 a.C.
[51] Scoliaste di Licòfrone, 359, Scheer. Si ricorda
che Licofrone fu uno studioso erudito, poeta, tragediografo e commediografo,
nato in Calcide nel 330 a.C.
[52] Orfeo (attr.)
Argonautiche, 695 e segg.
[53] Mentre alcuni la identificano
con la folaga, e Arato (Fenomeni, 933 e sgg.) ed Eliano (H. A. VII,
7) precisano la somiglianza con la cornacchia di mare, per Detienne e Vernant questo
eróidios è senza dubbio una specie di airone, forse l’Ardea
nucticorax.
[54] Solo di recente la ricerca
neuroscientifica ha scoperto i meccanismi biologici che consentono agli uccelli
l’orientamento rispetto all’asse della terra.
[55] Apollonio Rodio I, 105-110.
[56] Se la versione orfica sembra una
sceneggiatura da film di Spielberg, la versione di Apollonio è più prossima al
cartone animato.
[57] Scoliaste di Licòfrone, 359, p. 139, 27-30, Scheer;
cfr. Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op. cit., p. 180.